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In memoria di Giovanni Falcone a ventotto anni dalla strage di Capaci

Stemma Comune di Ferno

Risultato immagine per foto falconeQuando il Sindaco mi ha chiesto di scrivere, nella mia veste di assessore ai Rapporti Istituzionali, qualche riga in memoria del giudice Falcone, confesso di aver provato sensazioni contrastanti, onorata dalla proposta ma, al tempo stesso, preoccupata di non essere all’altezza, di non saper trovare le parole giuste per ricordarlo nella maniera adeguata senza scadere nella mera retorica.

Giovanni Falcone si definiva “un servitore dello Stato in territorio ostile”. Era nato a Palermo il 18 maggio 1939, studi classici e, poi, una laurea in giurisprudenza nel 1961. Fu nominato pretore nella città di Lentini, quindi sostituto procuratore a Trapani e, nel 1978, magistrato a Palermo. Il resto è storia nota: la stretta collaborazione con Rocco Chinnici, la creazione del pool antimafia subito dopo l’assassinio di quest’ultimo, il maxi processo, l’intensa lotta contro la mafia braccio a braccio con Paolo Borsellino e, infine, la strage di Capaci.

 

Risultato immagine per strage di capaci fotoSabato 23 maggio 1992 ore 17.58. Sull’autostrada A29, che dall’aeroporto di Punta Raisi porta a Palermo, viaggiano tre Fiat Croma. A bordo ci sono il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. La corsa delle tre auto si interrompe all’altezza dello svincolo di Capaci, appunto, dove, sotto l’asfalto, Cosa Nostra ha posizionato mezza tonnellata di tritolo. La detonazione, il boato e l’inferno. La carreggiata risucchiata dall’esplosione, alberi divelti, macerie ovunque e le tre macchine distrutte. Muoiono Falcone, la moglie e tre uomini della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Due mesi dopo, il 19 luglio 1992, un’altra esplosione, questa volta un’autobomba, si porta via Paolo Borsellino. Immagini indelebili nella memoria degli italiani. Calano buio e silenzio. Sono i più violenti atti terroristici della storia, ferite profonde che forse non si cicatrizzeranno mai. Muoiono due uomini, due magistrati italiani che hanno dedicato la loro vita alla lotta contro la mafia e che quella lotta hanno pagato con la vita stessa.
Per chi ha la mia età, il 1992 era l’anno della Maturità, l’anno delle decisioni importanti; il liceo terminava, bisognava scegliere cosa fare nella vita. Fu l’anno in cui le iscrizioni alle Facoltà di Giurisprudenza ebbero una vertiginosa impennata.
Volevamo diventare giudici, procuratori, avvocati, studiosi del diritto. Come loro, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Avremmo continuato la loro lotta per riscattare il nostro Paese da quelle immagini di violenza e sporcizia. Quel sacrificio di vite non poteva restare sotto silenzio, era nostro compito portare avanti l’eredità morale che quei grandi uomini, divenuti loro malgrado eroi e martiri, ci avevano lasciato. Nel nome di una nuova coscienza civile fatta di giustizia e legalità, onestà e moralità. Utopia forse, ma quello era davvero il sentimento comune a tanti giovani.

 

Risultato immagine per falcone borsellino fotoNo, non riesco a trovarle le parole giuste per onorare adeguatamente la memoria del giudice Giovanni Falcone. Troppo immane la tragedia e troppo sconfortante ciò che ne è seguito: una storia che talvolta sembra aver dimenticato troppo presto la rabbia e il disgusto di quei giorni. Scelgo allora di farmi aiutare prendendo in prestito quelle pronunciate in memoria di Giovanni Falcone dal suo collega e fraterno amico Paolo Borsellino: “La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che l’ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui appartiene. […] La lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità. […] Sono morti per tutti noi, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera”.

La speranza è che queste parole siano di ispirazione anche per le giovani generazioni, perché si lascino trasportare e si impegnino con animo lindo ed intransigente a rendere più reale quell’utopia di giustizia e legalità, onestà e moralità che forse noi non siamo riusciti a perseguire con la necessaria determinazione.

Avv. Sarah Foti
Assessore ai Rapporti Istituzionali, alla Cultura e Pubblica Istruzione

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